Nelle terre dei contadini liguri, dove persino la ruota era un lusso impraticabile, tutto ciò che serviva per l’attività agricola e le necessità quotidiane veniva trasportato a dorso d’uomo. Questo sforzo, chiamato “camallare”, era così radicato nella vita contadina da diventare una seconda natura, quasi fisiologica come il camminare.
Fin da piccoli, i bambini imparavano a trasportare piccoli carichi, più come gioco o insegnamento che per reale necessità. Le donne portavano i pesi in testa, protette da un cuscinetto chiamato “u sutestu”, mentre gli uomini li trasportavano sulla spalla e sul dorso, con una giacca ripiegata o un sacco imbottito di paglia, chiamato “u pagéttu”, a proteggerli.
Ogni tipo di carico aveva il suo modo di essere trasportato. Il letame, ad esempio, veniva spostato in contenitori di vimini come “u vàllu” o “a cùffa”, facili da rovesciare. Patate, castagne, granturco e altri prodotti agricoli venivano portati in corbe o sacchi. Il vino viaggiava in caratelli o “in ta barì”, mentre le olive venivano misurate a “quarte”. Persino l’acqua, prima dell’avvento dei tubi di piombo, veniva trasportata con due secchi appesi alle estremità di un bilanciere di legno, detto “u bázeru”, che poggiava sulle spalle.
L’erba e le foglie venivano racchiuse in enormi fazzoletti di tela di sacco, chiamati “a ridàssa”, e toccava alle donne trasportarli perché erano più leggeri. Il fieno veniva compresso in balle di circa 70 chilogrammi, dette gabbie (“gàgge”). I tronchi, i carichi più pesanti e lunghi, venivano portati dagli uomini in coppia sulla spalla.
Il ritorno a casa del contadino avveniva quasi sempre “camallando”, e l’insegnamento era chiaro: non si doveva mai tornare a mani vuote. Anche solo un po’ d’erba per i conigli, frutta, funghi o fascine secche per accendere il fuoco, tutto valeva. Questo era valido per tutti, indipendentemente dall’età o dal sesso.
I sentieri tra le case sparse, le ardite scalette d’ardesia a sbalzo sui muri delle “fasce”, nella stagione delle semine e dei raccolti, erano percorsi da lenti e infaticabili portatori di ogni età e sesso. Ciascuno, secondo le proprie forze, faceva la spola tra casa, campi e bosco, scaricando – giorno dopo giorno – quel poco che un essere umano poteva portare.
Porcella M., “La fatica e la Merica”, Genova, Sagep, 1986
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