La “religione del lavoro”

La dedizione alla fatica

Nelle terre liguri, dove i contadini e le contadine lavoravano incessantemente, nacque una sorta di “religione del lavoro”. Questa dedizione alla fatica, sopravvissuta anche con il mutare dei tempi, divenne parte integrante della vita di contadini-emigranti e contadini-operai.

 

Il lavoro agricolo

Il clima favorevole permetteva una varietà straordinaria di colture, tipiche di un’agricoltura di autoconsumo: frumento, granoturco, patate, legumi, vigna, olivo, frutta, ortaggi, gelso e castagno. A questi si aggiungevano la raccolta della legna da ardere, la fienagione, la cura del bestiame e, quando le braccia giovani abbondavano, anche il disboscamento e il dissodamento. Non c’era sosta nell’annata agricola; ogni stagione e ogni giornata erano colme di lavoro. Ogni membro della famiglia aveva un ruolo, ogni minuto era prezioso.

 

Le attività artigianali

Quando il maltempo impediva i lavori all’aperto, gli uomini si dedicavano ad attività artigianali: costruivano scale a pioli, attrezzi di legno, riparavano scarpe, infissi, tavoli e panche. Facevano di tutto per evitare spese inutili, guadagnare qualche centesimo e, soprattutto, non restare in ozio. Il lavoro divenne così un valore morale; l’ozio, invece, era considerato il peggiore dei vizi, e l’ozioso il peggiore degli uomini.

 

Il valore del lavoro

In questa cultura del lavoro, il rigore era inflessibile, quasi fanatico, paragonabile alla fede religiosa. Non si ammettevano deroghe; il lavoro era un valore trascendente e ogni membro della famiglia doveva sentirsi mobilitato. Chi non era laborioso veniva giudicato severamente, specialmente i giovani: chi stava con le mani in mano, secondo il giudizio comune, inevitabilmente inclinava al vizio. I dialetti locali avevano decine di sinonimi per definire i fannulloni. Più un individuo lavorava, più era stimato. Le altre qualità erano secondarie.

 

Il riconoscimento sociale

L’epitaffio più onorevole che si potesse ricevere era “sciancòu da u lòu”, letteralmente “strappato dal lavoro”, ossia consunto al limite di rottura. Questo era il massimo riconoscimento per una vita di duro lavoro, il sigillo di una vita vissuta con dedizione e sacrificio, in una terra dove il lavoro era tutto, dove la fatica quotidiana forgiava il carattere e definiva il valore di una persona.

Fonti

Bruschi R., Lebboroni S., “Ritratto di Cogorno. L’antico feudo dei Conti Fieschi attraverso le sue memorie storiche”, Genova, De Ferrari Editore, 2000

Porcella M., “La fatica e la Merica”, Genova, Sagep, 1986

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