Nel cuore delle campagne liguri, tra le colline e le valli strette, vi era un aspetto della vita contadina tanto radicato quanto temuto: la litigiosità. Questo tratto, ereditato e giustificato da generazioni di contadini, era il frutto amaro di divisioni ereditarie, dell’uso delle sorgenti e delle comunaglie, nonché dei continui contrasti causati da un’agricoltura frammentata e da proprietà terriere polverizzate. Le famiglie erano costrette a vivere e lavorare in spazi angusti, “a contatto di gomiti”, con un sistema di servitù reali e personali che raramente trovava riscontro in documenti scritti, ma che era spesso tramandato oralmente.
In questa esistenza faticosa e inflessibile, non tutti riuscivano a conservare umanità e tolleranza. Alcuni, come il mezzadro Valino descritto da Cesare Pavese, incarnavano la figura del padre inferocito, accecato dall’ignoranza e dalla durezza della vita. Queste erano le famiglie “dannate”, come venivano chiamate in dialetto. I padri-padroni, spinti dalla rabbia e dall’ossessione del possesso, finivano per distruggere l’armonia familiare, litigando con i figli, i fratelli e i vicini. Queste famiglie erano temute da tutti.
Erano persone che recintavano ogni angolo di terra, negavano i passaggi e si impossessavano delle sorgenti. Perfino i ragazzi non osavano rubare ciliegie o uva fragola, un diritto consuetudinario che altrove veniva tollerato. I loro cani, sempre incatenati, ringhiavano e mordevano, mentre le loro terre si espandevano misteriosamente, con i confini che migravano verso le proprietà altrui. Attorno a queste famiglie si creava una terra di nessuno, dove i vicini rinunciavano a far valere i propri diritti per evitare di spendere in liti i soldi che non avevano.
Quando due famiglie “dannate” si scontravano, nascevano faide memorabili. I dispetti, i pettegolezzi, le bassezze degradanti e le ferocie potevano arrivare fino all’omicidio nei secoli passati. Col tempo, le faide si trasformarono in una danza legale, fatta di citazioni, ricorsi e memorie, in un girotondo infinito che produceva solo carte bollate e parcelle di avvocati. I litiganti morivano, la memoria dei fatti e dei misfatti si annebbiava, ma le cause continuavano a pendere davanti ai giudici, e le famiglie a detestarsi con la stessa intensità di sempre.
E così, generazione dopo generazione, la rabbia e il rancore passavano di padre in figlio, alimentando un ciclo di conflitti che sembrava non dover finire mai, mentre le campagne liguri conservavano le loro storie di lotte e divisioni, eco di un passato che ancora si rifletteva nel presente.
Porcella M., “La fatica e la Merica”, Genova, Sagep, 1986
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